martedì 8 marzo 2016

Accabadora - Michela Murgia

Accabadora di Michela Murgia
176pg
Einaudi
Maggio 2009
Letto Marzo 2016
⭐⭐⭐⭐
Maria e Tzia Bonaria vivono come mamma e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava, ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso ha molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, ma soprattutto come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte.



Fillus de anima.
È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell'anima di Bonaria Urrai.


Ho avuto un colpo di fulmine per Michela Murgia leggendo a Dicembre la sua ultima opera, Chirù: mi hanno stregato la sua prosa e i suoi personaggi, lasciandomi un'immensa voglia di leggere altro di suo. È per questo che, durante la promozione sui titoli Einaudi, ho acquistato Accabadora e non me ne sono certo pentita.

Protagoniste della vicenda sono Maria, Tzia Bonaria e la Sardegna degli anni Cinquanta. Maria è figlia d'anima di Bonaria Urrai: è stata cioè da lei presa in affidamento, se così vogliamo dire, dato che la madre naturale aveva già altre tre figlie e non aveva voglia né mezzi per occuparsi anche di lei. Dopo un inizio incerto, rapidamente tra le due si sviluppa un profondo legame d'affetto, perlomeno fino a quando Maria non verrà a conoscenza del reale mestiere di Bonaria e il mondo sembrerà crollarle addosso.

Questa, in soldoni, la storia contenuta nel romanzo, ma in realtà c'è tutto un mondo racchiuso in neppure centottanta pagine.

Abbiamo la Sardegna degli anni Cinquanta, quella dell'entroterra, chiusa nei confronti del "continente" e pervasa da tutta una serie di riti e tradizioni antichissimi, spesso in contrasto con il cattolicesimo e talvolta anche con il senso comune. Si respira l'aria di paese, un paese nel quale, da bravi continentali, ci si sente completamente estranei e in parte neanche molto ben accolti. C'è un'atmosfera quasi surreale che pervade tutta la narrazione, un qualcosa di magico che talvolta fa dimenticare quanto sia in realtà veritiera la descrizione che l'autrice fa della vita del tempo.

In questo contesto si inseriscono tutta una serie di personaggi che Michela Murgia tratteggia con estrema abilità, tanto che durante la lettura mi sembrava quasi di averli dinnanzi: mi sono affezionata ad alcuni, Bonaria in primis, e ne ho detestati altri, nessuno di loro mi è rimasto indifferente. Le loro vicende sono poi intrecciate con maestria e ho adorato le discussioni tra Bonaria e Maria, che sottolineano l'estrema intelligenza della Tzia. Il loro rapporto, che è in definitiva un rapporto madre - figlia, è intenso, vero, nonostante tra le due non sia presente alcun legame di sangue.

I temi trattati rappresentano poi un'altra carta vincente del romanzo: in primis l'eutanasia e l'abuso, che vengono inseriti in questa cornice storica ma che sono di estrema attualità. È giusto interrompere la vita di una persona che soffre? Non è comunque omicidio? Meglio assistere all'agonia di una persona amata o aiutarla ad andarsene via più in fretta? Il romanzo ci offre in proposito una posizione ben precisa: per quel che mi riguarda, non ho ancora scelto "da che parte stare", posso avere un'idea in proposito, ma penso anche che finché in certe situazioni non ci si ritrova è facile parlarne.

L'unica parte che non ho molto apprezzato è stata quella ambientata a Torino, probabilmente per l'assenza di quello che in definitiva è il mio personaggio preferito, Bonaria.

In definitiva, un romanzo che si legge rapidamente per la sua brevità ma che lascia un segno indelebile, sia per le domande che genera sia per l'incredibile vividità delle vicende e dei personaggi, il tutto scritto con uno stile ricco ma mai pesante.

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